Non profit

L’uomo alla finestra e Massimiliano Kolbe

Eugenio un giorno si chiede cosa c’è oltre il muro del limite. Cosa c’è oltre il vuoto. E si immagina di incontrare...

di Dario Voltolini

Seguendo il tempo come uno spiffero d?aria, Eugenio ha pensato e pensando ha visto qualcosa aprirsi fra le altre cose: fra tutte le altre cose. Aprirsi e sprofondare, nello stesso movimento che si dilata. Ogni cosa è restata, nel pensiero e nella visione di Eugenio, esattamente quella che era, dove era, intatta. Tuttavia la visione ha aperto una falla tra le cose, per così dire attorno a ciascuna cosa. Non è stato necessario che le cose precipitassero come in una voragine, magari allontanandosi da Eugenio, e scomparissero rimpicciolendo molto lontano, in basso, fuori dalla nostra portata. Non è stato come vedere un baratro sfondato inghiottire tutto l?esistente. È stato vedere che tutto già albergava tra una specie di curva fatta a piaga, vuota e senza sostanza. Era lo scavo che aveva svuotato le intercapedini fra tutte le cose, era lo spazio fra lembi lacerati, che improvvisamente si apriva e appariva lui stesso come una cosa, una cosa vuota, una cosa nulla.
Sempre, Eugenio se ne era andato circolando per le vie a domandarsi questioni alte, decisive, imponenti. Mai era riuscito a concentrare l?attenzione oltre un certo limite, o meglio: mai era riuscito a prolungare lo sforzo e la tensione del pensiero oltre un certo periodo di tempo. Il pensiero che partiva in verticale da Eugenio e andava a frugare in alto, molto in alto, era un faro intermittente.
Erano stati sempre sprazzi, dove sarebbero occorsi pazienti fili da tessere, da intrecciare, uno dopo l?altro, la trama e l?ordito, per fare l?arazzo, il tappeto robusto. E così Eugenio lampeggiante puntava sbalorditi pensieri in direzioni ricche e succose, ma quelli subito sgusciavano lontani, si incurvavano, lasciando Eugenio di fronte alle stesse cose raggruppate senza spettacolo.
Ma le cose ferme, anziché distrarre il pensiero dalla cavità senza pareti che le conteneva, rendevano agli occhi di Eugenio sempre più evidente – come fosse una cosa – quella medesima cavità: sentiva che un vento prepotente e larghissimo, non fatto però d?aria, si inabissava nell?incavo interminabile, andando via, dileguando fra tutte le altre cose. Eugenio aveva pensato, un tempo, che anche l?uomo seduto al bar avesse visto tutto ciò, all?incirca nello stesso modo suo.
Eugenio ovviamente poteva essere preso per uno scettico incallito, uno di quelli che piuttosto di tentennare verso un?ipotesi preferiscono lasciare cadere il labbro, la palpebra e la guancia in una maschera da ritardato. Invece girovagando tra le cose, inclusi gli altri uomini, Eugenio lampeggiava i suoi discontinui raggi verso limiti per lui naturalmente irraggiungibili. Lo sapeva, sapeva che certe fedi, certi comportamenti, certi pensieri si alzavano in piedi a contrastare quel soffio di quel vento che si perde nell?incavo scavato senza fine. Si alzavano e davano il petto al vento. Il vento di cui parliamo non è fatto d?aria, ma piuttosto di nulla e di vuoto, e dunque anche nelle sue tempeste, nella bufera, non è una forza che spinge, ma che corrode, nessun petto che gli si opponga può sentire l?urto e la pressione di questo vento, perché non è fatto d?aria: opposizione è dunque un semplice alzarsi e restare, sbalordendo di scandalo tutto quel vuoto che si dilata e si allarga come un?apertura che stia crescendo.
Eugenio conosce certe figure così alzate. Pensieri, fedi, comportamenti. Esempi, forme viventi di quelle cose-persone alzate a contrastare, a stare. La mia piccolezza, dice un giorno, e la mia insufficienza spirituale non mi impediscono di ammirare, di venerare, di essere stupito da questi esempi viventi. Nel lampeggiare della propria intermittenza, Eugenio individua con evidenza le direzioni che il pensiero dovrebbe prendere per arrivare forse.
C?è un piazzale. È ancora notte, senza stelle. Filo spinato. Baracche. Si alza esile e mortale la sagoma della forca. Poi, dopo uno scatto della visione, ecco dieci prigionieri scelti per essere assassinati. Ecco Durand, ecco Goldstein, ecco Aron. E poi Humbert, e Werner, Baruch, Steinberg. E ancora Krawski, Pouchovski e Gajovniczek. Quando Eugenio pensa e vede, immagina direttamente la scena come una frase con il suo significato. A volte le immagini di Eugenio, quindi, vanno a capo.
Ecco però che si stacca, dall?indistinto nero-grigio senza stelle e bruno scuro di baracche e informe linea di filo spinato, la figura di Kolbe che avanza e viene a proporre il baratto, lo scambio fra sé e un prigioniero. Kolbe allora è fermo, benché calpestato e spinto, nel senso di quelle cose che restano-resistono, mentre proprio resistendo il vento senz?aria le lima via, le buttera di niente, di vuoto, le consuma: come starebbero sempre intonse le cose se non stessero alzate in quel modo, bensì semplicemente cullate e trattenute nel ventre vacuo di questa cosa senza fondo che Eugenio ha visto e che crede sia stata vista anche dall?uomo seduto al tavolino del bar.
Comincia un lungo tunnel. I corpi stipati nel cubo cominciano a morire. Resta ultimo Kolbe. Ecco: Eugenio spara un suo raggio intermittente in quella direzione, probabilmente verso il centro stesso del petto di Kolbe. E dice che il nostro desiderio di vivere ce l?abbiamo così tanto radicato dentro che preferiamo sicuramente vivere nelle condizioni più miserabili piuttosto che morire.
Dice questo nel breve tempo in cui il suo lampo riesce a raggiungere il petto di Kolbe. Poi però il lampo sparisce, ma non così la cosa detta.
Eugenio pensa che abbiamo un orizzonte, il quale termina contro un muro. Il muro segna il limite, il confine. Di qui la vita, di là la morte. Brutalmente detta, questa opposizione convince Eugenio della realtà materiale e ruvida del muro. E un orizzonte che termina contro un muro, non è un?immagine che si possa semplicemente vedere: infatti Eugenio prima di tutto l?ha pensata.
Eugenio cammina per la città, lentamente come le lucciole nel buio dei prati, e tutti gli anni che sono passati fanno da fogliame in giro intorno. Eugenio conosce una casa fatta con le ossa. Nella casa ci sono finestre, sono aperte e passa anche attraverso quella loro apertura il vento spalancato e senz?aria che si perde nello scavo. È un vento immobile, diremmo eterno, che dimentica ogni cosa. Nelle finestre si aprono, allargandosi, dei vuoti.
Nessuno quindi si aspetta che Eugenio, così trafitto e discontinuo, così attento ai mulinelli fatti dal senso annullandosi nel vortice senza direzione, proclami di pretendere una cosa, un ordine assoluto in cui disporre ciò che ha valore. Un ordine assoluto che cosa significa?
Eugenio pensa che abbiamo un orizzonte, il quale termina contro un muro. Il muro segna il limite. Ma pensa, avendolo visto, che per alcuni tra noi uomini e donne che siamo qua, l?orizzonte vada oltre il muro. Forse questi altri orizzonti partono come i nostri, curvano come i nostri, ma forse accelerano e proseguono come linee che intersecano, o scavalcano, come curvature eccessive che si inarcano e che esorbitano. Dunque è possibile che il segnale luminoso che colpisce il petto di Kolbe e subito si smorza, venga in un altro senso raccolto e riflesso nella direzione che Kolbe sa vedere, ma non Eugenio, perché l?orizzonte di Kolbe eccede il muro, ma quello di Eugenio no.

Dario Voltolini: le parole per
raccontare visioni e musiche

Dario Voltolini, scrittore e giornalista culturale a ?La Stampa? è nato a Torino nel 1959. Ha pubblicato ?Una intuizione metropolitana? (Bollati Boringhieri, 1990); ?Rincorse? per i tipi della Einaudi e lo scorso anno ha pubblicato ?In gita a Torino? per Gribaudi-Paravia.
Ha scritto anche i testi dei melologhi realizzati con Nicola Campogrande (?Mosorrofa, o dell?ottimismo?, su compact disc). Si tratta di composizioni artistiche da recitare con un accompagnamento musicale.

I racconti dell?estate
settimana per settimana

Anche quest?anno? Vita? ha offerto ai suoi lettori racconti inediti, scritti appositamente da alcuni dei più affermati, ma insieme scomodi, scrittori italiani. Dopo i cicli dedicati alle città, alla tv e all?essere padri e figli, quest?anno a tema, la carità. A chiusura del ciclo di racconti vi ricordiamo autori , titoli e date dei racconti pubblicati in quest?estate ?98
Sul n. 28, 18 luglio
Adriano Sofri racconta la storia dura ma commovente di un suo compagno di cella. E Mario Tuti confessa la tristezza e il dolore per un gesto di carità negato.
Sul n. 29, 25 luglio
Franco Loi ricorda un amico scomparso
Sul n. 30 , 31 luglio
Erri De Luca, ovvero quando la carità si fa ?prossima? e diventa gesto
Sul numero 31, 7 agosto
Il racconto shock in tempo di guerra di Raul Montanari
Sul n. 32/33, 21 agosto
Guido Conti ha raccontato la strana carità di un agente di borsa
Sul n. 34, 28 agosto
Il sorprendente racconto di Luca Doninelli dedicato a un missionario laico, in Brasile ?per caso?
Sul n. 35, 4 settembre
L?ex sessantottino-clochard di Enzo Fontana
Sul n. 36, 11 settembre
Il diario di viaggio di Aurelio Picca in Italia

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